lunedì 21 agosto 2023

Cinque grandi film italiani che terminano col suicidio del (o della) protagonista

 L'estremo gesto che nasce dall'estrema disperazione, la follia che si raggiunge quando si è varcato il muro altissimo che delimita il nostro primordiale istinto alla vita e che ci spinge a cercare la morte. Tutto questo e altro ancora è stato argomento di vari libri e di vari film, si pensi al romanzo "Fuoco fatuo" ( "Le feu follet", 1931) di Pierre Dreu La Rochelle e all'omonimo film (1963) di Louis Malle. Qui in particolare voglio parlare di cinque ottimi film di grandi registi italiani che terminano col suicidio del o della protagonista.

Andando in ordine cronologico, il primo è "Germania anno Zero" (1948) di Roberto Rossellini, è questo anche il film più tragico del regista romano, che lo girò poco tempo dopo aver perso il figlio a causa di una malattia. È la tristissima storia di un ragazzino tedesco che si ritrova a vivere nella Germania del secondo dopoguerra, precisamente a Berlino, dove diviene vittima di situazioni nate dal degrado fisico e materiale e da una povertà enorme; tutto ciò, unito ad una condizione famigliare decisamente problematica, spinge l'adolescente verso il suicidio. Di un a tragicità altissima è l'ultima parte del film, in cui il protagonista cammina per le strade di Berlino che riflettono una città distrutta, morta, annientata da tutti i punti di vista.

A circa dieci anni di distanza dal film di Rossellini, esce nelle sale italiane "Il grido" (1957) uno dei primi lungometraggi di Michelangelo Antonioni. È la vicenda disperata di un uomo che si allontana dalla sua donna perchè questa non lo vuole più e si trova a vivere in luoghi che non riconosce come suoi, incontra donne con cui non riesce ad instaurare un rapporto duraturo; quindi, sconsolato, ritorna nel posto da cui era partito e qui si getta da una torre davanti agli occhi della sua ex amante. Si tratta di una storia che potrebbe essere riportata benissimo ai tempi di oggi, e che vede prevalere quel non-sentimento alla base della trilogia che di lì a poco avrebbe realizzato il regista lombardo: l'incomunicabilità. Il paesaggio padano che trasmette nello spettatore una desolazione profonda, ben si addice alla trattazione di questa notevole opera cinematografica.

Nel 1965 il pubblico italiano può assistere all'opera cinematografica più importante del regista Antonio Pietrangeli: "Io la conoscevo bene", storia di una ragazza che dalla provincia toscana si trasferisce nella capitale italiana e qui, dopo aver svolto molti mestieri senza mai riuscire a realizzarsi e dopo aver conosciuto parecchi personaggi squallidi, tipici approfittatori che la corteggiano per bassi scopi, si accorge della sua totale estraneità rispetto alla società (in verità assai meschina) che la circonda, e, non potendo più tornare indietro, decide di farla finita gettandosi da un balcone. Pietrangeli, ancora una volta ha voluto raccontare la vicenda di una donna, questa volta però il finale è certamente più drammatico rispetto agli altri suoi film, che mai si erano conclusi con un suicidio. La disperazione della protagonista (una bravissima Stefania Sandrelli) non sembra trapelare se non negli ultimissimi minuti della pellicola quando, quasi senza pensarci troppo, la giovane donna compie il gesto estremo lasciando lo spettatore disarmato e sconcertato. 

L'idealismo portato alle estreme conseguenze è quello che emerge in "San Michele aveva un gallo", film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani datato 1973, che è da considerarsi come uno dei capolavori dei due cineasti. Giulio Manieri, interpretato ottimamente da Giulio Brogi, è un anarchico italiano che, insieme ad alcuni suoi seguaci, intraprende un'incursione armata per conquistare un paese e per portare la popolazione dalla sua parte, la cosa però non gli riesce e viene arrestato. Allora inizia un lungo periodo di prigionia, trascorso dal rivoluzionario in isolamento completo; gli ideali però non lo abbandonano anche in questa fase difficile e grazie ai suoi sogni sempre vivi riesce a superare i momenti più deprimenti. Un giorno però Manieri viene prelevato dalla sua cella per esser trasferito in un altro carcere; mentre viaggia ammanettato su un imbarcazione attraverso la laguna, si accorge che, a poca distanza dalla sua, c'è un'altra barca in cui viaggiano alcuni prigionieri politici. Inizia un dialogo che permette a Manieri di capire il pensiero politico di questi prigionieri, simile ma non uguale al suo, si accorge di essere ormai vecchio e che i suoi ideali sono sorpassati; allora, non trovando più motivi validi per restare in vita, avendo sacrificato la sua esistenza solo e soltanto alla consacrazione del suo pensiero politico, approfitta di un momento di distrazione della guarda presente nella sua barca per gettarsi in acqua e annegare. 

Infine ecco una pellicola di un regista napoletano Mario Martone che rende omaggio ad un altro insigne napoletano: Renato Caccioppoli (1904-1959), il film s'intitola "Morte di un matematico napoletano" (1992) e descrive gli ultimi giorni del professore ormai devastato dall'alcol e da una depressione che nella vicenda filmica non si palesa mai completamente, anche se la figura di Caccioppoli risulta certamente complicata e insondabile. Importante è questa pellicola che pone l'attenzione sull'ultima parte della vita di uno studioso partenopeo certamente poco conosciuto; bravo è l'attore Carlo Cecchi che lo impersona. Improvvisa e per certi versi scioccante appare la decisione, da parte di Caccioppoli, di morire sparandosi un colpo di rivoltella. 




ELENCO DI CINQUE FILM CHE SI CONCLUDONO COL SUICIDIO DEL (O DELLA) PROTAGONISTA


"Germania anno Zero" (1948) di Roberto Rossellini.

"Il grido" (1957) di Michelangelo Antonioni.

"Io la conoscevo bene" (1965) di Antonio Pietrangeli.

"San Michele aveva un gallo" (1973) di Paolo Taviani e Vittorio Taviani.

"Morte di un matematico napoletano" (1992) di Mario Martone.


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